tolstoismo e anarchismo

da Rivista Anarchica On-Line



tolstoismo e anarchismo

“Una rondine fa primavera”
a cura delle Edizioni Spartaco

L'ultimo Tolstoj e il movimento anarchico italiano.

Le Edizioni Spartaco hanno mandato in libreria a maggio l'antologia di Lev Tolstoj, Una rondine fa primavera. Scritti sulla società senza governo con i giudizi degli anarchici italiani (1894-1910), a cura di Piero Brunello (collana «il risveglio», n. 21, pp. 250, € 12,00). Pubblichiamo qui, alcuni brani, affiancando a Tolstoj i commenti di Errico Malatesta, Luigi Galleani e Luigi Fabbri.
Con questa antologia, Piero Brunello presenta la ricezione negli ambiente libertari italiani tra la fine dell'Ottocento e il primo decennio del Novecento del pensiero religioso, politico e sociale dell'ultimo Tolstoj. A un certo punto della vita, Tolstoj abbandonò la letteratura per scrivere lettere aperte, appelli, articoli e opuscoli polemici nei quali raccontava la sua conversione interiore, e denunciava l'esistenza degli eserciti e delle chiese, la proprietà della terra, il patriottismo, la pena di morte. Scriveva che i governi e gli stati erano la sciagura dell'umanità. Accusava re e imperatori d'ingannare i loro popoli con visite, parate militari e brindisi in nome del benessere e della pace mentre in realtà organizzavano i futuri massacri. Indicava nelle chiese cristiane la radice delle guerre e dell'abitudine all'obbedienza; i libri di storia – continuava – invece di chiamare le cose con il loro nome, giustificavano la menzogna; e concludeva con appelli come questo: «Soldati, disobbedite! Sottufficiali, dimettetevi! Contadini, rifiutatevi di lavorare per i padroni! Non più guerre; pace tra i popoli; la terra a chi la lavora!».
In Italia i redattori dei giornali anarchici seguivano le traduzioni francesi dei suoi opuscoli o le edizioni italiane che su quella base venivano fatte, ne davano notizia ai lettori e ne pubblicavano scelte di brani sotto titoli come La società senza governo, La parola di Leone Tolstoj, Il pensiero anarchico in Leone Tolstoj, Il governo è male, Carne da cannone. La figura di Tolstoj era così venerata che le sue parole servivano a rafforzare la propaganda. Dopo aver letto l'anticipazione dello scritto Il mio giornale intimo in una rivista francese, Luigi Fabbri ne segnalò l'uscita nel quindicinale “Il Pensiero”, che dirigeva assieme a Pietro Gori. Una frase soprattutto l'aveva colpito: «Si dice che una rondine non fa primavera; ma perché una rondine non fa primavera, dovrà essa, che la primavera presenta, non volare, dovrà essa aspettare? Allora ogni uccello e ogni filo d'erba dovrebbe aspettare, e così la primavera non verrebbe mai!». Fabbri commentava: «È la risposta a coloro che rimproverano ai rivoluzionari la loro audacia col pretesto che i tempi non sono maturi, che non è venuta la primavera, per volare» (“Il Pensiero”, Roma, 10 agosto 1903).
Brunello ricostruisce, in forma di antologia, un dibattito a distanza su temi cruciali per chiunque voglia riflettere sui meccanismi del potere e del dominio, e per chiunque abbia a cuore libertà, eguaglianza, giustizia. Raggruppando i testi per parole chiave («Cristianesimo», «Patriottismo», «Guerra e pace», «Società senza governo», «Agire moralmente» per quanto riguarda Tolstoj; «Polemista, educatore», «Asceta cristiano, proprietario coll'ideale del buon contadino», «Progresso, rivoluzione, perfezionamento individuale» nella sezione dedicata ai giudizi degli anarchici), si è proposto di mostrare attorno a quali parole, e viceversa attorno a quali silenzi, si sia formata una tradizione rivoluzionaria. Il nodo della questione stava, e sta tuttora, nel modo d'interpretare l'appello alla non resistenza al male. Mentre altrove – per esempio nei Paesi Bassi e negli Stati Uniti – darà vita alla disobbedienza civile e all'azione diretta nonviolenta, in Italia viene rifiutata in nome della rivoluzione; allo stesso modo vengono rifiutate l'obiezione di coscienza e la diserzione, in nome di un immaginario che prevede soldati in armi correre in appoggio ai proletari e agli oppressi in rivolta.

a cura delle Edizioni Spartaco

Lev Tolstoj

«Il potere deve essere distrutto. Ma come?»
di Lev Tolstoj

Il potere è divenuto inscuotibile, ma esso non si appoggia più sull'unzione, l'elezione, la rappresentazione o altri principi spirituali, ma sulla forza, e nello stesso tempo il popolo cessa di credere al potere e di rispettarlo e non si sottomette a esso se non perché non può fare altrimenti.
Ora, dopo la metà del secolo ultimo, dopo che il potere è divenuto inscuotibile e nello stesso tempo ha perduto nel popolo la sua giustificazione e il suo prestigio, una dottrina ha cominciato a manifestarsi fra gli uomini […]. Secondo questa dottrina il potere non è, come lo si pensava in altri tempi, qualche cosa di divino, di augusto, non è nemmeno la condizione necessaria della vita sociale, ma semplicemente la conseguenza della violenza grossolana degli uni verso gli altri. Che il potere sia fra le mani di Luigi XVI o del Comitato di salute pubblica, del Direttorio o del Consolato, di Napoleone o di Luigi XVIII, del sultano, del presidente, del mikado o dei primi ministri, dovunque vi sarà il potere degli uni sugli altri, non vi sarà libertà, ma oppressione degli uni sugli altri. È per questo che il potere deve essere distrutto.
Ma come distruggerlo? E come, distruggendo il potere, fare in modo che li uomini non ritornino allo stato selvaggio della violenza grossolana esercitata dagli uni sugli altri?
Tutti gli anarchici – come si chiamano i propagatori di questa dottrina – sono affatto d'accordo fra loro sulla risposta alla prima questione e dicono che il potere per essere distrutto efficacemente, deve essere distrutto non con la forza, ma con la coscienza che avranno gli uomini del suo danno e della sua inutilità. Ma alla seconda questione: come deve essere stabilita la società senza il potere? essi rispondono in modi differenti.
L'inglese Godwin che viveva alla fine del secolo XVIII e il francese Proudhon, che ha scritto verso la metà del secolo ultimo, rispondevano alla prima questione che basta, per distruggere il potere, che gli uomini abbiano coscienza che il bene generale (Godwin) e la giustizia (Proudhon) siano violati dal potere e che se si spanda nel popolo la convinzione che il bene generale e la giustizia possono essere realizzati, ma solo con l'assenza del potere, questo si distruggerà da sé.
Alla seconda questione: come sarà garantito senza il potere il benessere della società? Godwin e Proudhon rispondevano che gli uomini guidati dalla coscienza del bene generale (Godwin) e dalla giustizia (Proudhon) troverebbero necessariamente le forme della vita le più ragionevoli, le più giuste e le più vantaggiose per tutti. Altri anarchici, come Bakunin e Kropotkin, riconoscono pure come mezzi di distruzione del potere la coscienza nelle masse del pregiudizio che esso causa e delle sue anomalie con i progressi dell'umanità, ma credono intanto possibile e anche necessaria la rivoluzione, a cui consigliano di preparare gli uomini. Alla seconda questione rispondono che appena lo Stato e la proprietà saranno distrutti, gli uomini si accomoderanno naturalmente alle condizioni ragionevoli, libere e vantaggiose della vita.
Alla questione dei mezzi di distruggere il potere, il tedesco Max Stirner e lo scrittore americano Tucker rispondono quasi come i precedenti.
Entrambi stimano che se si comprendesse che l'interesse personale di ciascuno è una guida affatto sufficiente e legale per gli atti umani e che il potere non fa che impedire le manifestazioni di questi principi dirigenti della vita umana, il potere si distruggerebbe da se stesso, grazie alla non obbedienza e principalmente, come dice Tucker, alla non partecipazione all'autorità. La loro risposta alla seconda questione è che gli uomini, sbarazzati dalla credenza superstiziosa nella necessità del potere, non seguiranno che il loro interesse personale, si aggrupperanno essi stessi secondo le forme sociali della vita le più regolari le più vantaggiose per ciascuno.
Tutte queste dottrine hanno affatto ragione su questo punto, che se il potere deve essere distrutto, non lo può essere con la forza; poiché il potere resterà il potere; ma non si può raggiungere questo risultato se non illuminando la coscienza che il potere è inutile e nocivo, e che gli uomini non debbono obbedirgli né parteciparvi. Questa verità è indiscutibile. Il potere non può essere distrutto che con la coscienza ragionevole degli uomini. Ma in che deve consistere questa coscienza? Gli anarchici suppongono che essa può essere basata su delle considerazioni relative al bene generale, alla giustizia, al progresso, all'interesse personale degli uomini.
Ma, senza rilevare che tutti questi principi non concordano fra loro, le definizioni stesso del bene generale, della giustizia, del progresso, dell'interesse personale sono infinitamente varie; ed è per questo che è difficile supporre che gli uomini in disaccordo e comprendendo diversamente i principi in nome dei quali essi lottano contro il potere, potrebbero distruggerlo quando esso è così fermamente stabilito e si difende con tanta abilità.
E la supposizione che le considerazioni del bene generale, della giustizia, della legge del progresso possano essere sufficienti perché gli uomini che non si sono liberati dal potere, ma che non hanno alcuna ragione di sacrificare il loro bene personale al bene generale, si aggruppino in condizioni eque che non urtino la libertà individuale, questa supposizione è ancora meno fondata. Quanto alla teoria utilitaria ed egoistica di Max Stirner e di Tucker, che afferma che i modi di agire di ciascuno secondo l'interesse personale stabiliranno degli equi rapporti fra tutti, essa non è solamente arbitraria, ma assolutamente contraria a ciò che è accaduto e in realtà accade.
Di modo che, riconoscendo con ragione l'arma spirituale come unico mezzo di distruzione del potere, la dottrina dell'anarchismo, attenendosi a una concezione non religiosa e materialista del mondo, non ha quest'arma spirituale, e si limita a delle supposizioni, a dei sogni che danno la possibilità ai difensori del violenza – grazie alla falsità dei mezzi di realizzazione della dottrina che si propone – di negare le sue vere basi.
E quest'arma spirituale è quella che gli uomini conoscono da lungo tempo, che sempre distrusse il potere e diede a quelli che ne usavano, la libertà completa che non si può togliere. Quest'arma – e non ve n'è altra – è la concezione religiosa della vita nella quale l'uomo considera la sua esistenza terrestre come una manifestazione parziale della sua vita, legando questa alla vita infinita, nello stesso tempo che, ponendo il suo bene supremo nel compimento delle leggi di questa vita infinita, giudica che la sottomissione a queste leggi è più importante per lui dell'obbedienza a non importa quali leggi umane. […].

Lev Tolstoj
(da L. Tolstoj, Agli uomini politici, in Id., Agli uomini politici. La guerra russo giapponese,
trad. di M. Salvi, Sonzogno, Milano s.d. [1905], pp. 10-14)



Errori e rimedi. Schiarimenti
di Errico Malatesta

D'altra parte un errore, opposto a quello in cui cadono i terroristi, minaccia il movimento anarchico. Un po' per reazione contro l'abuso che in questi ultimi anni si è fatto della violenza, un po' per la sopravvivenza delle idee cristiane, e soprattutto per l'influenza della predicazione mistica di Tolstoj, alla quale il genio e le alte qualità morali dell'autore danno voga e prestigio, incomincia ad acquistare una certa importanza fra gli anarchici il partito della resistenza passiva, il quale ha per principio che bisogna lasciare opprimere e vilipendere se stesso e gli altri piuttosto che far del male all'aggressore. È quello che è stato chiamato l'anarchia passiva.

Errico Malatesta

Poiché alcuni, impressionati dalla mia avversione contro la violenza inutile o dannosa, hanno voluto attribuirmi, non so troppo se per lodarmi o per denigrarmi, delle tendenze verso il tolstoismo, io profitto dell'occasione per dichiarare che, secondo me, questa dottrina, per quanto appaia sublimamente altruista, è in realtà la negazione dell'istinto e dei doveri sociali. Un uomo può, se è molto… cristiano, soffrire pazientemente ogni sorte di angherie senza difendersi con tutti i mezzi possibili, e restare forse un uomo morale. Ma non sarebbe egli, in pratica e qualunque senza volerlo, un terribile egoista, se lasciasse opprimere gli altri senza tentare di difenderli? se, per esempio, preferisse che una classe fosse ridotta alla miseria, che un popolo fosse calpestato dall'invasore, che un uomo fosse offeso nella vita e nella libertà, piuttosto che ammaccar la pelle dell'oppressore?
Vi possono essere dei caso in cui la resistenza passiva è un'arma efficace, e allora sarebbe certamente la migliore delle armi, poiché sarebbe la più economica di sofferenze umane. Ma, il più delle volte, professare la resistenza passiva significa rassicurare gli oppressori contro la paura della ribellione, e quindi tradire la causa degli oppressi.
È curioso osservare come i terroristi e i tolstoisti, appunto perché sono gli uni e gli altri dei mistici, arrivano a conseguenze pratiche presso che uguali. Quelli non esiterebbero a distruggere mezza umanità pur di far trionfare l'idea; questi lascerebbero che tutta l'umanità restasse sotto il peso delle più grandi sofferenze piuttosto che violare un principio.
Per me, io violerei tutti i principi del mondo pur di salvare un uomo: il che sarebbe poi infatti rispettare il principio, poiché, secondo me, tutti i principi morali e sociologici si riducono a questo solo: il bene degli uomini, di tutti gli uomini.

Errico Malatesta
(da “L'Anarchia”, Londra, agosto 1896, ripubblicato in Id., Scritti scelti, a cura di G. Berneri-C. Zaccaria,
Edizioni RL, Napoli 1954, pp. 21-25)


Leone Tolstoj
1828-1910

di Luigi Galleani

Abbiamo dato nel numero scorso l'annunzio della morte di Leone Nikolajewitch Tolstoj, avvenuta la mattina del 30 novembre u.s. ad Astapova.
Rileviamo in questo una circostanza che, comunque interpretata, non rimane meno vera: l'annunzio della sua morte ha corso il modo d'un brivido fugace. Sono dieci giorni che è morto, e nessuno parla più di lui.
Tra qualche anno nessuno, all'infuori del mondo puramente letterario in cui aveva fin dal 1863 conquistato il diritto di cittadinanza con Guerra e Pace e con Anna Karenina, parlerà più delle sue dottrine, delle sue opere filosofiche e morali.
E sarà giustizia.
Perché tutta la sua filosofia si riassume in uno sterile tentativo d'impossibile restaurazione cristiana, e tutta la sua morale si conchiude nel più scellerato insegnamento di rassegnazione e di rinunzia, nel dovere della non resistenza al male.
[…] E per lui tutta l'essenza del cristianesimo si riassumeva nel discorso che, secondo la leggenda, Cristo aveva tenuto ai discepoli sul Monte degli Ulivi:
I. Resta in pace con tutti e se la pace è turbata sforzati a ristabilirla;
II. L'uomo non prenderà che una donna e nessuno dei due sotto alcun pretesto, abbandonerà mai l'altro;
III. Non fare giuramenti;
IV. Soffri l'ingiuria e non rendere male per male;
V. Non turbare la pace neanche per giovare alla tua nazione.
[…]
Come nel nome dei cinque comandamenti del Signore aveva osato fulminare le chiese che «non soltanto hanno in ogni tempo misconosciuto la dottrina del Cristo e, per la forza stessa delle cose, le sono state sempre e acerbamente ostili» ma «come chiese, come congregazioni erette sulla propria infallibilità, sono istituzioni apertamente anticristiane» (1); così sempre in nome di cinque comandamenti del Signore aveva scagliato contro lo Stato, contro la legge, la polizia, la magistratura, l'esercito le sue folgori. Non in nome dell'umanità; non in nome della libertà; in nome del Cristo!
Cristo aveva detto: «Non giudicate se non volete essere a vostra volta giudicati» e in nome del Cristo ripudiava tribunali e giudici; Cristo aveva comandato: «non ammazzare!» e in nome di Cristo ripudiava il servizio militare che è scuola di omicidio; ripudiava lo Stato che su questi presidi si regge.

Luigi Galleani

Ripudiava lo Stato e la legge perché non esercitavano la loro severità che su di un insieme limitato e ristretto di azioni riprovate dalla morale e dalla pubblica opinione: «L'opinione pubblica riprova fin dai tempi di Mosè l'egoismo, la crudeltà, la lussuria; condanna l'egoismo in tutte le sue forme, non soltanto quando attenta violentemente ai beni del prossimo; condanna ogni specie di fornicazione colle cortigiane, colle mogli divorziate come colla moglie legittima; condanna tutte le crudeltà; i maltrattamenti, la fame, le stragi non soltanto degli uomini ma anche degli animali; mentre la legge non condanna che ALCUNE forme di egoismo, il furto e la frode; ALCUNE forme di lussuria e di crudeltà, l'adulterio, la mutilazione o l'assassinio, e autorizza così tutte le altre forme di lussuria, di egoismo e di crudeltà» (2).
Non dunque per eccesso, ma per difetto di severità e di autorità ha potuto Tolstoj conchiudere che «il rispetto di non importa quale legge è segno della più crassa ignoranza» (3).
Cotesto fiero atteggiamento di Tolstoj contro la chiesa, contro lo Stato e più contro la proprietà, giacché egli ha sempre considerato i ricchi «colpevoli per il solo fatto di esser ricchi» hanno ingenerato in molti il sospetto che Tolstoj fosse anarchico. Il sospetto era anche autorizzato dai giudizi che egli aveva espresso sull'esecuzione sommaria di Alessandro II e di Umberto I.
[…]
Tolstoj non era anarchico soprattutto perché l'anarchismo considera la vita affrancata da ogni giogo d'autorità, dall'autorità divina prima che dall'umana, ed egli è un credente «lo schiavo di dio» come egli amava dichiararsi, perché l'anarchismo è avvenire, è progresso, è la più alta forma di progresso che ci sia dato concepire per una più civile società umana, ed egli vorrebbe portarci al cristianesimo primitivo che è la forma sociale superata da venti secoli d'esperienza; perché l'anarchismo tiene conto di tutti gli elementi storici scientifici economici e morali che sono il patrimonio della presente umanità e di questi elementi materia le sue concezioni della società nuova ed è così razionale e scientifico anche nelle sue ipotesi, mentre la teoria tolstoiana è metafisica teologica complicata di una moralità assurda e antiumana; perché dove Tolstoj dice umiltà, l'anarchismo dice fierezza, dove il cristianesimo dice rassegnazione, l'anarchismo dice rivolta, dove quello dice penitenza questo grida libertà, benessere, pienezza intensa e incoercibile di vita!
A Leone Tolstoj è capitato quello che prima già era avvenuto a Herbert Spencer. Nella sua lotta per l'individuo contro lo Stato Herbert Spencer non ha perduto mai un'occasione per investire gli anarchici dei suoi sarcasmi e delle sue invettive, e nessuno ha dato agli anarchici un materiale più interessante e più efficace di distruzione rivoluzionaria.
Il Tolstoj nella sua crociata contro ogni forma di violenza per affrettare colla rassegnazione e la resistenza passiva l'avvento del «reame di dio» sulla terra, ha infuso nelle vene della rivolta proletaria turbini di sangue indocile colle sue critiche inesorabili dei fondamentali istituti della società borghese.
Per questo tra i borghesi che credono più nell'efficacia della mitraglia regia che non nelle cristiane predicazioni degli apostoli… in ritardo di una ventina di secoli, Leone Tolstoj è stato frettolosamente dimenticato; per questo forse abbondano pietose e diffuse le necrologie sui giornali sovversivi anche su quelli che, come il nostro, non l'amarono mai e giunsero, irriverenti e iconoclasti, a dubitare anche della sincerità della sua fede e del suo apostolato.
Perché, francamente, sulla sincerità della sua propaganda noi abbiamo avuto e abbiamo anche oggi più che un sospetto, e non l'abbiamo amato mai.

Luigi Galleani
(da “Cronaca sovversiva”, Barre (Vermont, USA), 2 dicembre 1910, poi in Id., Medaglioni. Figure e Figuri,
Biblioteca de L'Adunata dei Refrattari, Newark (New Jersey, USA) 1930, pp. 90-94).

Il pensiero anarchico in Leone Tolstoj
di Luigi Fabbri

Leone Tolstoj è morto. E con lui è scomparso uno dei grandi geni che hanno onorato la specie umana non solo con le opere dell'ingegno ma anche con un apostolato ideale di bontà.
In poco volgere di anni, quanti il mondo ha perduto di questi fari di luce! A essi tutti gli uomini di pensiero libero e tutti gli oppressori si volgevano fidenti, sicuri di poter trarne un ammaestramento e un incoraggiamento nella lotta faticosa contro il privilegio e per la libertà.
Sia che, come in Zola, Ibsen, Björson, la loro battaglia fosse combattuta nel campo letterario; o, come in Spencer e Bovio, nel campo filosofico; o, infine, come in Luisa Michel, Eliseo Reclus, Francisco Ferrer e Leone Tolstoj, la loro fosse una battaglia molteplice e sul terreno della sociologia e su quello dell'azione pratica, certo è che tutti questi grandi figli dell'umanità hanno lasciato dietro di sé un vuoto enorme, che ci inspira una inconsolata malinconia.
Oh, certo, è la legge della vita questa che trascina nel nulla della morte anche coloro che meglio e più nobilmente hanno vissuto. Ma non ci sentiremmo troppo rattristati, se vedessimo il loro posto occupato di nuovo da altri valori intellettuali e morali, che promettano all'umanità la prosecuzione dell'opera dei primi. Ma, purtroppo, per ora non vediamo nei nuovi sopraggiunti che mediocrità superbe quanto inutili, spinte solo dall'egoismo e dall'utilitarismo più gretto – cui le generazioni attuali sono state allevate da tutta una falsa educazione scaturita dall'arbitraria e unilaterale interpretazione dei progressi scientifici.

Luigi Fabbri

Quello che si chiama il «tolstoismo» non ci ha seguaci; tutt'altro! Se la filosofia tolstoiana della vita si diffondesse e trionfasse, assisteremmo certo a un regresso umano più che deleterio. Ma ciò non ci vietava di vedere in Leone Tolstoj la protesta vivente più bella in nome dell'ideale contro lo spirito gretto e basso che vince nell'ora presente. Il suo mistico altruismo, la sua devota abnegazione – inconcepibile per noi occidentali e in realtà inadatto alla vera missione della vita che è azione di combattimento e non contemplazione – hanno un grande valore di protesta e di reazione contro la mancanza di ideali che caratterizza le generazioni presenti.
Malgrado la mentalità diversa e le diverse tendenze, l'apostolo di Jasnaia Poliana è uno degli ultimi eroi di un tempo che è tramontato, del tempo così saturo dell'idealismo e di febbre novatrice che, cominciato coi primi rivolgimenti del 1848, è finito dopo la Comune, col tramonto dell'Internazionale. Lontano da questi avvenimenti, in antitesi coi loro programmi, Leone Tolstoj, si riallaccia a essi per il fervore religioso – religioso nel più nobile e umano senso della parola – che li animava. Poi vennero i pigmei della sesta giornata che, basandosi sopra un materialismo pseudoscientifico, hanno inaugurato l'era della degenerazione riformista.
Che importa se Leone Tolstoj dalle premesse giuste giungeva a conclusioni che non sono tutte le nostre? Che importa ch'egli, dalla critica aspra della società moderna, cui consentiamo, giungesse a consigliare il grave errore della non resistenza al male? Noi non misuriamo il genio, non misuriamo l'opera dei grandi alla stregua dei nostri programmi: e sappiamo intendere lo spirito che li anima, anche al di sopra dei particolari che non ci persuadono, al di là dei metodi e delle forme che non ci sembrano adatte al trionfo delle nostre idee.
[…]
Ciò nonostante Leone Tolstoj fu più nostro che d'altri, poiché egli non vedeva la salute dell'umanità che nella scomparsa di tutti gli sfruttamenti e di tutte le autorità. Chi, non dico dei conservatori clericali, ma dei repubblicani e dei socialisti, farebbero proprie le idee di Tolstoj sulla proprietà, sul collettivismo, sul militarismo, sul patriottismo, sullo stato, sul parlamentarismo – che sono così comuni con le idee degli anarchici?
[…]
Chissà del resto che non ci sia pure per noi qualche altra cosa da imparare e da assimilarci, nell'apostolato tolstoiano. Ché pur noi anarchici siamo troppo imbevuti dello spirito utilitaristico e bassamente materiale dei nostri tempi; e sarebbe un vivificare e nobilitare il nostro movimento, se riuscissimo a trasfondervi quello spirito di sacrificio e di idealismo che da qualche tempo ci manca, e che Tolstoj, purtroppo unilateralmente ed esclusivamente, ha meglio di tutti impersonato nel mondo.

Edizioni Spartaco
(da “Il Pensiero”, Bologna, 16 dicembre 1910)

Note

1. Tolstoj, Il regno di Dio, pp. 96-97.
2. Ibid., p. 172.
3. Tolstoj, Fede, p. 110.

Edizioni Spartaco
(collana «il risveglio», n. 21)

Lev Tolstoj

Una rondine fa primavera
Scritti sulla società senza governo
con i giudizi degli anarchici italiani
(1894-1910)

a cura di Piero Brunello

250 pagine - 12,00 euro

Si scrive Mussolini ma si legge...

Si potrebbe pensare che di Benito Mussolini, ormai, si sia già detto e scritto tutto. Eppure, stante l’importanza, negativa quanto si vuole ma innegabile, che il personaggio ha avuto nella nostra storia, il campo degli studi non manca di offrire nuovi elementi di conoscenza su aspetti scarsamente indagati, quali, ad esempio, tratti del carattere e della personalità o particolari biografici apparentemente secondari e che hanno invece condizionato molte delle scelte del futuro dittatore. Altrettanto si può dire a proposito degli studi sull’ambiente in cui è avvenuta la prima formazione politica di Mussolini, un ambiente particolare quanto a caratteristiche sociali, vista l’importanza che vi avevano l’appartenenza e l’impegno politico, e dal quale il nostro ha ricavato una sorta di imprinting che lo accompagnerà fino alla fine.
Questo lavoro di scavo in terreni altrimenti poco indagati, è il merito maggiore dell’interessante libro di Paolo Cortesi (Quando Mussolini non era fascista. Dal socialismo rivoluzionario alla svolta autoritaria: storia della formazione politica di un dittatore, Roma, Newton Compton, 2008), nel quale l’autore, profondo e appassionato conoscitore della sua terra, la Romagna, ricostruisce, con prosa scorrevole e convincente, gli anni della cosiddetta “formazione politica di un dittatore”, evidenziando la profonda influenza che la “romagnolità” ebbe sia sulle iniziali scelte politiche del “duce del fascismo” sia, in un secondo momento, sulla sua involuzione autoritaria e dittatoriale.
Il libro parte, infatti, dalla ricostruzione dell’ambiente famigliare di Predappio, quando il padre Alessandro, pur sinceramente legato alla moglie Rosa, donna profondamente religiosa, impartisce al figlio, da buon socialista, un’educazione sovversiva e fieramente anticlericale. E difatti Benito Amilcare Arnaldo (così registrato all’anagrafe, si sa, in onore del rivoluzionario messicano Benito Juarez, di Amilcare Cipriani e dell’eretico Arnaldo da Brescia) succhia col vino, abbondantemente versato in osteria nelle serate di accese discussioni con il coltello sul tavolo, le idee del vecchio fabbro internazionalista. Che anche se è passato al socialismo legalitario non manca di farsi notare, come ricorderanno i colleghi di un tempo, per passionalità e impegno militante.

È un ambiente sanguigno e privo di sfumature quello in cui cresce Mussolini, come sanguigno e privo di sfumature sarà tutto il suo percorso politico, sempre improntato, al di là della contraddittorietà dei comportamenti, alla gratificazione del proprio ipertrofico e incoercibile ego. Estremista spigoloso quando guidava le schiere massimaliste del socialismo, estremista ispirato quando passò all’interventismo (anche se qui il suo estremismo era alimentato dall’oro largamente elargitogli dai francesi per convincerlo a “tradire”), estremista brutale come duce dei fascisti, quando non volle mitigare la violenza assassina delle squadracce, estremista paranoico quando cacciò l’Italia in una lunga serie di tragiche imprese guerresche, incoscientemente affrontate con la prosopopea tipica del “patacca”. Di chi, in sostanza, racconta balle colossali (in questo caso sulla ridicola preparazione bellica e sul presunto spirito guerresco degli italiani) con la pretesa non solo di essere creduto, ma pure di essere ammirato. Insomma, un uomo costantemente sopra le righe, incapace di assumere atteggiamenti che non fossero determinati dal bisogno di compiacere e compiacersi. Non credo sia una forzatura richiamare alla mente un altro personaggio oggi altrettanto invadente, fasullo e deciso a piacere a tutti e a tutti i costi. Evidentemente la storia d’Italia non può fare a meno, periodicamente, di affidarsi ad imbonitori abili e spregiudicati ma falsi e ingannevoli come i miracoli della madonna di Lourdes.
Ecco, forse l’aspetto più interessante del lavoro di Cortesi sta nell’avere mostrato come la prosopopea mussoliniana non sia stata una conseguenza delle dinamiche politiche o una forzatura necessitata da chissà quali superiori interessi della patria, ma piuttosto un tratto caratteriale dovuto alla formazione e all’educazione ricevuta in Romagna. Una prosopopea inevitabile per un personaggio che, come acutamente ha scritto Torquato Nanni, amico di gioventù e primo biografo, non poteva non essere “uomo di parte”, uomo violentemente di parte: “Mussolini neutrale sarebbe come dire il sole a mezzanotte. Neutrale mai, in modo assoluto”. E lo dimostra tutta la sua biografia, non solo quella più nota, che va dal 1915 al 1945, ma anche quella precedente, quando Mussolini non sta dalla parte sbagliata, ma dalla parte dei lavoratori e degli umili, delle “plebi oppresse”, come si diceva allora. Quella puntigliosamente ricostruita da Cortesi e che prefigura, nei suoi aspetti iniziali, gli aspetti successivi della personalità di Mussolini: cultura dell’eccesso, una cultura di un impasto ricorrente in Romagna, dove le passioni, soprattutto quelle politiche, si dovevano esprimere come “passioni”, in questo caso alimentate dalla radicalità di un socialismo non ancora inquinato da tendenze riformiste e governative.
L’agiografia mussoliniana, così come la damnatio memoriae che ne è seguita, non hanno mai affrontato come si sarebbe dovuto questi tratti, la prima ritenendoli non nobilitanti del percorso politico e umano del “duce”, la seconda perché una lettura materialista attenta quasi solamente alle cause economiche delle dinamiche sociali non poteva attardarsi a considerare con attenzione anche gli aspetti psicologici ed emozionali con i quali si determinano gli avvenimenti storici. Se si eccettuano gli innovativi studi di Berneri sulla psicologia di Mussolini, le lacune storiografiche sono ancora numerose.
Il libro di Cortesi viene così a fornire un strumento di conoscenza per capire più a fondo come sia stato possibile che un personaggio così negativo, anche se con tratti indubbiamente geniali, possa avere goduto di tanto credito. E come sia possibile che ancora oggi uno che dovrebbe essere trattato da squallido imbonitore, quando si mette in politica buttando alle ortiche ogni scrupolo morale, riesca ad avere un seguito così plebiscitario e così pericoloso. Interrogarsi sul passato, come sempre, serve per comprendere il presente. E questo presente, ingombro di personaggi roboanti e strepitanti, ha davvero bisogno di essere indagato con più attenzione e senso critico. Il libro di Cortesi, pur guardando ad un passato apparentemente lontano, indaga anche il presente. E questo non è certamente poco.

Massimo Ortalli

L’anarcofemminismo di Emma Goldman di Bruna Bianchi

Da Rivista anarchica online

È stata una delle donne anarchiche più impegnata nella rivendicazione e nella messa in pratica dei diritti dell’altra metà del cielo.
Ora le edizioni BFS ne pubblicano un’ennesima raccolta di scritti, con il titolo “Femminismo e anarchia”. Ne pubblichiamo ampi stralci dell’introduzione.

Il mito di Emma Goldman

Negli ultimi decenni sono stati dedicati ad Emma Goldman numerosi scritti; si tratta per lo più di studi di carattere biografico, pervasi da un’ammirazione profonda per il suo attivismo appassionato, il suo temperamento indomabile, l’audacia delle sue campagne sul controllo delle nascite e il libero amore, il rigore della sua lotta contro la coscrizione e la guerra, il prezzo altissimo pagato per le sue idee. In una tale impostazione la maggior parte degli autori ha seguito il sentiero tracciato da Emma Goldman stessa nell’autobiografia, Vivendo la mia vita, l’avventura eroica di una donna, ebrea, immigrata, anarchica che seppe aderire nella propria vita ai propri ideali. (…)
Già negli anni Trenta Emma Goldman era diventata una figura mitica, un’icona, il simbolo della fierezza anarchica. Raramente gli studi hanno messo in discussione un mito che però ha oscurato a lungo la complessità e la radicalità del pensiero di Emma Goldman. L’attivista focosa e la ribelle hanno messo in secondo piano la pensatrice. Priva di una vera creatività intellettuale, spesso esclusa tanto dagli studi generali sull’anarchismo che da quelli sul femminismo, essa è stata descritta come una divulgatrice delle teorie di altri, in particolare di Bakunin e di Kropotkin. «Ella non fu assolutamente una pensatrice politica e sociale di rilievo». Questo giudizio, espresso nel 1961 da Richard Drinnon in “Rebel in Paradise”, è stato costantemente ripreso negli anni successivi. Perpetuando una concezione consolidata nella storia del pensiero politico che contrappone vita emozionale e pensiero, la maggior parte degli studiosi ha sminuito il contributo dell’anarchica russa sul piano teorico. Non stupisce quindi che siano state soprattutto le studiose femministe, nella convinzione che l’esperienza esistenziale arricchisca e illumini il pensiero, a considerare la filosofia politica e sociale di Emma Goldman degna di attenzione.
Le ricerche recenti hanno messo in rilievo la ricchezza della sua formazione culturale e teorica che, oltre agli anarchici europei, all’individualismo di Nietzsche, Stirner e Ibsen, attinse agli autori della tradizione radicale di resistenza all’autorità americani. Fondendo il suo pensiero con quello di Ralph Waldo Emerson, Walt Whitman, Henry David Thoreau, Emma Goldman contribuì a sfatare il mito che considerava l’anarchismo un prodotto europeo, una dottrina estranea agli Stati Uniti, introdotta dagli immigrati. Dalla tradizione dell’individualismo americano, dall’ideale della piena libertà degli esseri umani, sia come persone che come cittadini, Emma Goldman trasse nuovo impulso per la sua stessa concezione anarchica.

Individuo e società

Solo l’anarchismo enfatizza l’importanza dell’individuo, le sue possibilità e bisogni in una società libera. L’anarchismo insiste sul fatto che il centro di gravità nella società è l’individuo, che egli debba pensare da sé, agire in libertà e vivere pienamente la propria vita.
Così scriveva Emma Goldman in un articolo del 1934 in cui faceva un bilancio della sua vita. L’anarchismo, il «meraviglioso ideale», «il grande fermento del pensiero», era la filosofia della piena espressione individuale e della «fusione armoniosa» di individuo e società (…)
La visione di Emma Goldman del «meraviglioso ideale» è una visione aperta alla possibilità. L’impegno di tutta la sua vita fu quello di favorire le condizioni per lo sviluppo e l’espressione di una interiorità vitale e creativa in tutti gli aspetti della vita contrastando i tentativi della società di controllare gli individui attraverso codici morali coercitivi e distruttivi dei legami personali e sociali che imponevano distorsioni agli impulsi naturali. I temi ai quali si rivolse la sua lotta politica e ai quali dedicò i suoi scritti: libertà di parola, indipendenza femminile, libertà sessuale, controllo delle nascite, diritti dei lavoratori, educazione alla libertà e al pensiero critico, a suo parere erano strettamente correlati, aspetti inscindibili di un unico processo che avrebbe condotto allo sviluppo di individualità forti e indipendenti, capaci di creare nuove e più libere forme di espressione.

Liberazione personale e mutamento sociale

Il modo di vivere la propria vita secondo gli ideali di libertà, a partire dalle relazioni più intime con gli altri, era per Emma Goldman un fine in sé e un aspetto cruciale del mutamento sociale (…)
Di quei dodici saggi scelti ad illustrazione del suo pensiero, risultato dello «sforzo della mente e dell’anima», cinque erano dedicati alla questione femminile: al tema del suffragio, della prostituzione, del matrimonio, della sessualità e dell’amore.
Le sue convinzioni radicali su questi argomenti apparvero ai contemporanei ben più pericolose delle idee che giustificavano la violenza rivoluzionaria e neppure nel movimento anarchico esse erano pienamente accolte, bensì considerate questioni di secondaria importanza, se non di vere e proprie deviazioni. È nota la conversazione di Emma Goldman con Kropotkin durante la quale l’anarchico russo le chiese se «valesse la pena perdere tanto tempo a discutere di sesso» e la sua raccomandazione rivolta alle anarchiche americane affinché dessero la priorità nella loro azione politica alla liberazione dei lavoratori (…)
A differenza della maggior parte delle suffragiste, Emma Goldman era convinta che l’indipendenza femminile non si sarebbe realizzata in seguito a miglioramenti economici o a concessioni dall’alto, ma avrebbe preso le mosse da una rigenerazione interiore, da una trasformazione del modo di pensare.
Una tale impostazione rivela la consapevolezza della natura complessa del dominio, una costrizione che si esercita in ogni aspetto della vita: sui bisogni materiali, sui corpi, sulla mente e sulla condotta. Il dominio è anche un modo di porsi di fronte all’esperienza sociale e personale che soffoca la vita, distorce la personalità degli individui, conduce alla omologazione delle idee e alla passività.
Opporsi al dominio in tutte le sue forme implicava un processo di liberazione dalle costrizioni esterne e interiori, imponeva che si rompesse il cerchio della dipendenza – economica, psicologica ed emotiva – perché si potessero manifestare ed esprimere i propri desideri e le proprie inclinazioni. In questo processo i temi della sessualità e della riproduzione assumevano un’importanza fondamentale, in particolare per le donne, oppresse dalla famiglia patriarcale e dalla morale puritana.

La critica al suffragismo

Le convinzioni di Emma Goldman sul rapporto tra liberazione personale e mutamento sociale la ponevano in aperto contrasto con il movimento suffragista. Le donne avrebbero dovuto liberare se stesse dai propri «tiranni interiori» e non attendersi l’emancipazione dalla partecipazione alla politica parlamentare, «corruttrice della personalità e delle convinzioni». Un tale antisuffragismo radicale non trovava consensi unanimi neppure tra le femministe anarchiche, alcune delle quali vedevano nel voto il riconoscimento del diritto delle donne ad esprimersi e pertanto un passo verso l’affermazione della propria dignità.

A parere di Emma Goldman era in primo luogo il modo di vivere la propria vita da parte delle sostenitrici del suffragio a dimostrare che la via da loro indicata era sbagliata. Il rifiuto delle convenzioni sociali, infatti, aveva condotto molte di loro ad escludere dalla propria vita le relazioni di intimità con gli uomini. Un messaggio di rinuncia, una scelta di impoverimento della propria vita affettiva da cui non poteva scaturire alcuna emancipazione (…)
Un altro motivo di contrasto con le suffragiste era legato al tema della differenza di genere. «La mia divergenza con le femministe [...] sta nel fatto che la maggior parte di loro vede la propria schiavitù come qualcosa di distinto dal resto del genere umano». Malgrado tutte le teorie politiche ed economiche che si occupano delle differenze fondamentali tra i vari gruppi della specie umana, malgrado le differenze di classe e di razza, malgrado tutte le artificiali linee di demarcazione tra i diritti dell’uomo e quelli della donna, da parte mia sono convinta che esista un punto in cui queste differenziazioni possono incontrarsi e riunificarsi in un insieme perfetto (La tragedia dell’emancipazione femminile).
Uno dei principali argomenti avanzati dalle suffragiste a favore del voto alle donne si fondava sulla convinzione della loro superiorità morale. Se le donne avessero potuto esprimersi attraverso il voto – affermavano –, se avessero potuto riversare nella società i valori femminili della cura e della difesa della vita, avrebbero contribuito a liberare la convivenza sociale dai mali che la affliggevano.
Al contrario – a parere di Emma Goldman – uomini e donne non rappresentavano mondi antagonisti, il dualismo dei sessi era una nozione assurda, una separazione meschina. Le donne non erano migliori degli uomini e non sarebbero riuscite là dove gli uomini avevano fallito. Gli esiti deludenti del suffragio femminile nella sfera sociale e politica nei paesi in cui le donne avevano ottenuto il diritto di voto, stavano a dimostrarlo.

Donne e uomini

Il rifiuto delle premesse del movimento per il suffragio condussero Emma Goldman a non misurarsi con la riflessione femminista contemporanea sulla differenza di genere. Benché nel complesso il movimento per il suffragio fosse un movimento di donne delle classi medie, conservatore e puritano, non mancava una corrente femminista che fondava la sua analisi sulla differenza tra i generi e che muoveva una critica radicale alla società industriale, al militarismo, allo sfruttamento sessuale delle donne, alla violenza domestica.
L’enfasi sulla necessità dell’incontro tra uomini e donne, sulla comune umanità, sul carattere artificiale delle divisioni e l’avversione per ogni forma di puritanesimo possono spiegare una tale sottovalutazione che condusse Emma Goldman a limitare le sue stesse argomentazioni. Infatti, quando essa fa riferimento alle esperienze femminili, non le definisce e non le analizza. «Femminilità», «istinto materno», «animo femminile», «emozioni profonde di una vera donna, innamorata e madre» sono espressioni che hanno potuto apparire conservatrici perché non si accompagnavano ad una riflessione sulla specificità femminile, che non poteva essere semplicemente elusa.
Ugualmente, la sua critica penetrante al concetto corrente di emancipazione, esteriore e superficiale, una emancipazione che finiva col rivendicare una parità vuota e acritica, come «il privilegio di diventare giudice, carceriera, boia», o quello di diventare «un automa da lavoro», si arresta di fronte alla mancata definizione del diverso processo di liberazione nell’uomo e nella donna (…)
Tanto Emma Goldman era distante dal modo di pensare delle suffragiste delle classi medie, quanto si sentiva vicina al vissuto delle donne delle classi lavoratrici. Lo rivelano i saggi dedicati al tema della prostituzione.
In questi scritti la sua analisi è acuta, penetrante, radicale, provocatoria. Essa equipara la prostituzione alle relazioni matrimoniali, individua le sue cause principali non solo nel fattore economico, ma anche nell’ignoranza e nella condizione di inferiorità in cui erano tenute le ragazze, nel pregiudizio che le condannava. Le ragazze sono definite le «vittime della moralità», ovvero di un’ipocrisia bigotta che considerava la prostituzione una necessità o un vizio femminile.
Anche in questo caso, la sua critica si arresta di fronte alla differenza tra i generi. Dopo aver affermato che la prostituzione «succhia la linfa vitale sia degli uomini che delle donne», la sua attenzione si fissa su colei che si prostituisce e ne analizza anche la distorsione dell’impulso sessuale, quella particolare sovreccitazione provocata dal lavoro negli stanzoni affollati delle fabbriche e dalla frequentazione dei locali di divertimento a basso costo. Sulla distorsione dell’impulso sessuale negli uomini, un tema che altre femministe del suo tempo andavano affrontando, Emma Goldman non fa alcun cenno.
Il rifiuto delle facili contrapposizioni tra uomini e donne, la volontà di fustigare l’ipocrisia puritana, conducono Emma Goldman ad eludere alcune tematiche cruciali dei rapporti tra i generi. Per queste ragioni il suo appello alla liberazione femminile appare talvolta volontaristico, quasi incurante degli ostacoli che le donne avrebbero dovuto affrontare per conquistare la dignità necessaria a rivendicare la propria indipendenza e tradisce una certa insofferenza per coloro che non seguivano il suo esempio.

Una pioniera e un modello

Attraverso i suoi scritti, le sue conferenze e l’autobiografia Emma Goldman voleva portare un messaggio e offrire un modello, dimostrare che la vita delle donne poteva essere libera ed emotivamente appagante. Il testo di una conferenza dedicata nel 1911 a Mary Wollstonecraft, al suo desiderio di fare l’esperienza di relazioni coniugali rivoluzionarie, alla ribellione contro le costrizioni autoritarie, al temperamento passionale, è particolarmente illuminante dell’immagine che Emma Goldman aveva di sé e dello spirito con cui si accostava alla questione femminile. Emma Goldman fu una delle poche femministe a far riferimento a Mary Wollstonecraft, sulla cui opera cadde ben presto il silenzio a causa della sua vita “scandalosa” e delle sue sfide al conformismo ritenute dannose per la causa emancipazionista. In Mary Wollstonecraft Emma Goldman si rispecchiava; in essa vedeva una figura tragica, la pioniera del moderno concetto di femminilità la cui vita e il cui pensiero la collocavano al di là della capacità di comprensione dei contemporanei (…)
Come Mary Wollstonecraft, Emma Goldman in diverse fasi della vita fu travolta dalla passione per un uomo, una passione che sentiva come un limite alla sua libertà e che la sua ragione rifiutava. La tensione tra libertà e reciprocità, tra il desiderio di completa indipendenza e quello della sicurezza di un legame, tra le sue convinzioni sul libero amore e l’incapacità di liberarsi dalla gelosia, fu un vissuto lacerante. Lo rivelano l’autobiografia e soprattutto le lettere inedite. Così scriveva a Ben Reitman nel 1909: Non ho il diritto di portare un messaggio agli altri quando non c’è messaggio nella mia anima. Non ho il diritto di parlare di libertà poiché sono diventata una schiava abbietta in amore.
Le riflessioni più radicali contro la monogamia e la gelosia, come quelle contenute nella conferenza La gelosia, le sue cause e una possibile cura, furono elaborate nei periodi più tormentati delle sue relazioni d’amore, quando stava conducendo una lotta interiore per superare quei sentimenti che criticava pubblicamente. Le esortazioni a condurre una vita libera che rivolgeva alle sue uditrici, i suoi appelli alla volontà, erano gli stessi che rivolgeva, in modo sofferto, a se stessa.
Nel 1931, così scriveva ad Alexander Berkman: «Nella lotta che mi lacerava ogni volta che dovevo decidere tra il mio amore per un uomo e le mie idee, invariabilmente le mie idee e non la mia passione hanno deciso la mia strada». Il fatto è che non abbiamo scelta, aveva scritto, sempre ad Alexander Berkman, nel 1925, «l’impulso verso la libertà, che spinge alla lotta per un ideale più elevato, è talmente grande e trascinante che non possiamo resistere». L’ideale di un futuro anarcofemminista, un tempo in cui tutti sarebbero stati liberi nell’amore e nel lavoro, in grado di fare di se stessi persone pienamente umane e creative in grado di produrre vera ricchezza sociale (…)
Tale era lo «splendido ideale» a cui aveva dedicato la sua vita e che la rendeva insofferente di ogni meschinità, di ogni prospettiva politica ristretta, che animava la sua critica sferzante e determinava la sua intransigenza.
Emma Goldman ci ha lasciato un’eredità complessa; attraverso la sua vita e la sua elaborazione teorica ha contribuito a dare una dimensione femminista all’anarchismo e una dimensione libertaria al femminismo. La sua convinzione dell’interdipendenza tra il mutamento sociale e collettivo e quello interiore degli individui merita di essere ripresa, apprezzata in tutto il suo valore, arricchita dall’esperienza della nostra vita.

Bruna Bianchi

Per un nuovo umanesimo anarchico


Si intitola così (sottotitolo: “Realismo di un progetto libertario”) il volume che il nostro collaboratore Andrea Papi ha appena pubblicato per le edizioni Zero in Condotta. Il volume (106 pagg.) costa 10,00 euro. Richieste e versamenti:conto corrente postale 14238208 intestato ad AUTOGESTIONE, Casella Postale 17127, 20170 Milano. zero@tin.it cell. 377145518. Ne pubblichiamo l’introduzione.

Scrivo questo libro per il piacere di farlo e per il desiderio di riuscire a esprimere i sentimenti profondi che mi pervadono quando mi immergo nella tensione ideale. Ogni volta mi regala una meravigliosa sensazione: mi fa intravedere e comprendere la bellezza dell’anarchia. Ma non è mia intenzione fluttuare superficialmente tra barocchismi estetizzanti, come potrebbe far supporre l’uso della parola “bellezza”. L’estetica appena annunciata è un’autentica estetica del sentire, sia dell’intero apparato sensoriale, sempre coinvolto, sia dei potenti sommovimenti interiori che da sempre mi sconquassano l’anima per elevarmi lo spirito verso godimenti di verità e di sogno, impossibili da trasmettere nella loro completezza.
Sono invero spinto dal bisogno di cercare di comprendere fino in fondo e di trasmettere il senso meraviglioso, di libertà e di liberazione di energie, racchiuso nell’idea anarchica, che ha dato senso alla mia vita e lo dà a quella di tanti/e altri/e fratelli e sorelle di vita e di pensiero. Lo farò con analisi, riflessioni e ricerca di senso, nel tentativo difficilissimo di rendere e comunicare, attraverso la parola scritta, la gioia del pensare e della ricerca di conoscenza che mi suscita sempre il navigare nell’oceano di libertà, di amore e di luce che ai miei occhi e al mio cuore è l’utopia anarchica.
L’anarchia dei nostri sogni corrisponde a una condizione sociale diffusa e condivisa in cui il senso della vita è legato al cercare come vivere al meglio per tutti. Dove si pensa e si agisce spinti da un sentimento spontaneo diretto verso se stessi e gli altri con cui condividiamo sofferenze e gioie dell’esistere. Dove la ragione di vivere non è il bisogno/ricatto del lavoro, ma il piacere di vivere. Dove usufruiamo tutti delle ricchezze offerteci dall’abbondanza del pianeta che ci ospita per soddisfare i nostri bisogni e i nostri piaceri, senza accumulare ricchezze personali per ridurre gli altri in schiavitù o servaggio. L’abbondanza di beni del pianeta non può e non dev’essere più proprietà esclusiva di nessuno, né individuo, né gruppo, ristretto o ampio non ha importanza, né specie. Di tutti significa di ogni essere vivente, pianta o animale che sia. L’usufrutto equamente distribuito e il soddisfacimento solidale sono un bene prezioso che l’anarchia si sente di realizzare.
Perché non dovrebb’essere possibile pragmaticamente, come sostengono i pilastri del potere che incombono sulle nostre vite, quando è possibile concepirla e desiderarla? Forse perché un manipolo di criminali ha deciso che non può che essere così com’è ora e che obbligatoriamente dobbiamo continuare a massacrare, distruggere, pauperizzare, soffrire e far soffrire? Forse perché quel manipolo, con la forza e la prepotenza, si è arrogato il diritto di appropriarsi dei beni che sarebbero di tutti e di goderne escludendo gli altri, comprese le altre specie? Bhé! Allora, se lo sfascio che stiamo vivendo non è ineluttabile né obbligatorio, com’io credo, e c’è soltanto perché degli spietati autoritari senza scrupoli son riusciti ad imporre il loro nefando volere, e noi finora glielo abbiamo permesso, allora è giunto il tempo di dire basta, di ribellarsi e di riportare le cose ad uno stato più vicino possibile alla loro naturale naturalità. Gli anarchici, che ne sono coscienti, devono diventare in grado di suscitarne il desiderio e di farlo.
Il sogno dell’anarchia, luogo utopico che ancora non c’è, ma che nei nostri cuori è destinato ad essere costruito col concorso di tutti i diseredati che ora soffrono, non è altro che un atto d’amore verso l’umanità e verso se stessi, perché per gli anarchici autentici il vero godimento e la vera attuazione ci potranno essere solo se ciò che si riuscirà a realizzare sarà goduto e condiviso in pienezza e in armonia con tutti.

Andrea Papi

Agnolotti Diario Agnolotti. Pare che stessero mangiando agnolotti i clienti del lussuosissimo ristorante “Il Cambio” in piazza Carignano, a Torino.

Agnolotti. Pare che stessero mangiando agnolotti i clienti del lussuosissimo ristorante “Il Cambio” in piazza Carignano, a Torino. Quando all’improvviso hanno fatto irruzione nei locali alcuni anarchici - o almeno così si dice - che hanno gettato a terra un secchio ripieno di merda e alcuni volantini. All’arrivo delle forze dell’ordine, il gruppetto se l’era già svignata. Così come la clientela, cui probabilmente gli agnolotti erano rimasti sullo stomaco.

Guardate il servizio del TG3 Piemonte su questo fattaccio:

Abbiamo provato a decifrare il testo del volantino dai pochi fotogrammi disponibili, e ci pare che il senso sia più o meno questo:

Guardate questo sangue. Questo è il sangue di due uomini rinchiusi dentro il centro per stranieri senza documenti di Torino. Si sono tagliati le braccia la mattina di sabato 14 marzo, per non essere espulsi. Questo è il sangue di due uomini che combattono per la libertà, e che sono pronti a morire per lei. Ora uno è detenuto presso il carcere delle Vallette. L’altro è stato trasferito nel lager di Ponte Galeria a Roma. La loro lotta non è finita. Altri stranieri detenuti sono in sciopero della fame, ovunque. A Bari tre di loro si sono cuciti la bocca, perché nessuno ascoltava la loro voce. A parte i soliti libertari, due dei quali hanno pagato con l’arresto e una condanna a 10 mesi di galera per aver osato volantinare in loro solidarietà, proprio quel 14 marzo, a Bari. E allora, Signori, che ci stiamo a fare noi qui? Noi non siamo qui per convincervi, perché noi e voi siamo nemici. Noi siamo qui per attaccarvi. E stasera non mangiate.

Leggi i racconti dell’irruzione fatti da alcuni giornali e la reazione di polizia, turisti veneti, ristoratori e politici:
“Voi vi ingozzate e nei cpt si crepa”
Guerra al lusso - lanci di sterco tra i tavoli dei vip
“Questa volta voi ricchi non mangerete”
Letame in tavola - la reazione incredula dei ristoratori torinesi all’episodio del Cambio
Tre domande a Sergio Chiamparino
Unanime la condanna dei partiti
Blitz con sterco al Cambio, ora è polemica politica
Aumentare la tensione

Mangia che ti passa

da Macerie



bocca cucita

Domenica sera ad Eataly, il supermercato/ristorante frequentato dai buongustai fighetti della città. Un folto gruppo di antirazzisti entra, si sparpaglia tra i reparti e dissemina sugli scaffali migliaia di fogliettini: «Mangiato bene? Io mi sono cucito le labbra», «Qui la polizia ci picchia e la Croce Rossa non dice niente. Mangia che ti passa!»… Poi si radunano, spunta uno striscione, un megafono e tanti altri volantini. Un piccolo e inaudito corteo comincia a sfilare tra le mensole ricolme e le tavole imbandite. Tra gli avventori c’è chi chiede i volantini interessato e chi fa finta di nulla. Ma c’è anche chi si volta con sdegno: in effetti molestare chi si sta succhiando delle ostriche è segno di scarsa classe e urbanità. Da parte sua, il personale non si scompone più di tanto – ed è una questione di classe anche questa.
Per la prima volta dopo anni di cappelle, la polizia politica torinese è sul luogo del delitto per tempo: un funzionario della Digos, in effetti, è già seduto ad un tavolo in dolce compagnia ancor prima che gli antirazzisti entrino nel supermercato/ristorante. Troppo impegnato a mangiare, neanche lui si sbatte più di tanto per fermare i contestatori.

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Guarda gli altri bigliettini e leggi il volantino distribuito.

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Ecco il testo del volantino distribuito:

Siamo quello che mangiamo?

Se immaginassimo uno straniero che, ignaro sugli usi del nostro paese, si facesse oggi un giro in questo supermercato del gusto, certamente si farebbe l’idea di una società civile e raffinata, ove ciascuno è libero di soddisfare come preferisce i propri appetiti e desideri. Purtroppo le cose non stanno così, e gli stranieri in particolare non se la passano affatto bene.
Per questo siamo qui oggi, affinché nessuno si dimentichi che questi privilegi sono possibili solo al prezzo di vergognose diseguaglianze, sulle quali non è più possibile tacere. Non è un mistero per nessuno che ormai la stragrande maggioranza dei lavori più bassi e faticosi, dalla raccolta nei campi alla cura dei nostri anziani, dai cantieri edili alle pulizie, siano lasciati agli immigrati. Mal pagati, sfruttati e denigrati dai padroni italiani, sono costretti a vivere a testa bassa in cambio delle nostre briciole, col ricatto costante di essere trovati senza documenti ed essere trattenuti in un CIE. In questi luoghi i pestaggi da parte della polizia sono all’ordine del giorno, come le omissioni di soccorso del personale medico e gli psicofarmaci nascosti nel cibo per provocare un sonno lungo e silenzioso. Con le nuove normative in materia di sicurezza ora la prigionia è stata prolungata fino a sei mesi; poi c’è l’espulsione coatta.
E tuttavia questo regime di paura e segregazione non sembra togliere l’appetito agli italiani.
In questi ultimi giorni, da quando i reclusi del Centro di Lampedusa hanno deciso di ribellarsi e bruciare quel lager, in molti CIE si susseguono rivolte e gesti disperati, da Malta a Milano, da Bologna a Gradisca d’Isonzo. A Torino alcuni detenuti del CIE di Corso Brunelleschi si sono tagliati per protesta, qualcuno ha ingerito delle batterie e ne è rimasto avvelenato, qualcuno prosegue lo sciopero della fame e della sete, un altro ha cercato di impiccarsi, un altro ancora siccome ha reagito contro il poliziotto che gli toccava la ferita è stato arrestato e trasferito in carcere. A Bari si sono cuciti le labbra, a Roma dopo l’ennesimo morto i reclusi di Ponte Galeria sono entrati tutti in sciopero della fame. Il ragazzo algerino diceva di sentirsi male, ma il medico non l’ha voluto visitare, e gli è stato risposto che le medicine poteva andarsele a prendere al suo paese. È stato picchiato dalla polizia e il giorno dopo, giovedì mattina, è stato trovato morto.
Non staremo a guardare mentre politici di destra e di sinistra varano leggi razziste e diffondono parole di odio e persecuzione. Non ci rassegneremo all’indifferenza dei più, né al silenzio imposto dall’informazione di regime, perché non possiamo più sopportare di vedere gente perbene che assapora delizie mentre altri ingoiano ferri e sono costretti allo sciopero della fame per essere ascoltati. Chiedono di essere lasciati in libertà, ed hanno bisogno del nostro aiuto. Siamo sicuri che tra un bicchiere di vino biologico ed un risotto equo e solidale in molti avranno lo scrupolo di riflettere su questi fatti gravissimi che succedono con sempre più drammatica frequenza. Qualcuno forse ci griderà contro, altri vorranno sapere come fare qualcosa, nessuno in ogni caso potrà rifiutarsi di fare un piccolo esame di coscienza.
Se a ragione si dice spesso che siamo quello che mangiamo, non possiamo più nascondere ai nostri occhi quel confine sempre più netto che separa chi ha tutto da chi non è niente, chi è libero da chi è schiavo.

Chiudiamo i lager!
Solidarietà con tutti gli immigrati in lotta per la libertà!

Assemblea Antirazzista di Torino
assembleaantirazzistatorino@autistici.org

Scarica il volantino.

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Grecia, attentati contro una banca e un negozio


Continua il confronto tra forze di sicurezza e anarchici

Questa mattina ci sono stati nuovi attentati ad Atene contro una banca e un negozio che sono rimasti distrutti. Gli attacchi vengono attribuiti agli anarchici

Ad Atene continuano i disordini. La banca danneggiata è una filiale della Aspis al Pireo, mentre il negozio è rimasto distrutto è stato attaccato con lancio di bombe incendiarie da un gruppo di uomini armati e incappucciati.
Dallo scorso dicembre si sono verificati diversi episodi di violenza nella capitale greca, dopo che la polizia fu uccise uno studente quindicenne. In seguito a quell'episodio, la polizia è stata accusata dall'opposizione di "incapacità".
Nei giorni scorsi il presidente greco, Costas Karamanlis, del partito di centrodestra Nuova Democrazia, ha annunciato nuove misure per rafforzare la risposta delle forze dell'ordine e aumentare le condanne contro chi porti cappucci durante le manifestazione.
Secondo un sondaggio il 60% dei cittadini à favorevole a queste misure e quasi il 50% vuole la fine del diritto di asilo di cui godono le università.

Dario Fo, "Morte accidentale di un anarchico". Il caso Pinelli

Propongo il documentario sull' assasino del compagno anarchico Pinelli.
Già da tempo conoscevo la storia di Pinelli, accusato dalla polizia di aver fatto un atentato alla stazione centrale milanese, accusato ingistamente, accusato per sviarele indagini da neofascisti e agenzie di stato segrete, ma è davvero ammirevole questo spettacolo teatrale diretto e interpretato da Dario Fo.
Dario è davvero geniale nel sottolineare il surrealismo della versione, esposta dalla polizia e poi presa per buona, che afferma che Pinelli si sia gettato, sotto interrogatorio, volotariamente giù da una finestra del secondo piano colto da un attacco improvviso di pazzia.
Non aggiungo altro, dice tutto lo spettacolo:











Parte 1



Parte 2



Parte 3



Parte 4



Parte 5



Parte 6



Parte 7



Parte 8



Parte 9



Parte 10 (ultima)

dal Cpt di corso Brunelleschi a Torino

L’appello video trasmesso clandestinamente da dentro il Cpt di corso Brunelleschi a Torino e caricato su Youtube è stato visto da oltre 1200 persone in tre giorni.

Oggi il video è stato censurato “a causa di una violazione delle Norme della community di YouTube”. Effettivamente il video viola il secondo comandamento: “non pubblicare brutte cose”. Ma siccome il mondo è pieno di brutte cose, sarebbe più corretto dire: “non pubblicare cose che dispiacciano alla questura”.

Ma le “brutte cose” bisogna avere il coraggio di guardarle, e di farle guardare a tutti, affinché non accadano più. Vale a dire, affinché i posti dove queste “brutte cose” accadono vengano semplicemente distrutti, assieme - come si dice - a tutto quel mondo che li ha costruiti e ne vuole costruire di nuovi, a quel mondo che li riempie, a quel mondo che li gestisce.

Scarica, guarda e diffondi questo video il più possibile. Un giorno potremmo averne bisogno anche noi di una copia.

Scarica una copia del video.

(link alternativo per il download: http://www.divshare.com/download/6855477-fba)

Il video Riuppato:



Antonin Artaud - Per gli analfabeti

tratto da Antonin Artaud, Pour les analphabètes

L’anarchia, senza ordine né legge, le leggi e i comandamenti non esistono senza il disordine della realtà, il tempo è la sola legge. Continuerò a disarticolare ogni cosa, nella vita degli universi, perché il tempo sono io.

La rivolta generale degli esseri è stata un sogno che ho osservato come un albero, nel mio angolo, con l’epidermide delle mie mani, e non ero morto, né distrutto, ma nel corpo da qualche parte. Sono una macchina che funziona benissimo e parte al primo colpo e sono gli esseri che, con la dialettica, fanno sorgere falsi problemi per comprendere esplicitamente quello che dico: che la mia testa funziona.

Seguo la mia strada nell’onestà, nel contegno, l’onore, la forza, la brutalità, la crudeltà, l’amore, l’acredine, la collera, l’avarizia, la miseria, la morte, lo stupro, l’infamia, la merda, il sudore, il sangue, l’urina, il dolore.
Non sono l’intelligenza o la coscienza ad aver fatto nascere le cose ma il dolore mistero del mio utero, del mio ano, della mia enterocolite, che non è un senso, caro signor Freud, ma una massima ottenuta solo soffrendo senza accettare il dolore, senza rivendicarlo, senza imporselo, senza starselo a cercare [...]

Non c’è scienza, c’è solo il niente, e non la supereranno la loro scienza se credono. Non si può vivere con tutti questi parassiti mentali attorno. Io sono colui che ha voluto rendere inutile il segno della croce.
Il dubbio, l’incostanza, l’ignoranza, l’inconseguenza non costituiscono uno stato alterato, ma il solo stato possibile, non esiste l’essere innato che avrebbe infusa la luce, la luce si fa vivendo, ma la sua natura reale è tenebrosa, non riempie mai lo spirito di consapevolezza, ma della necessità di accatastare il suo essere, di raccoglierlo al centro delle tenebre, affermazione consistente di un essere, di una forma che con la sua misura e i suoi appetiti si affermerà, l’essere, non dio, nessun principio innato.
Io non sono mai andato a dire agli intellettuali: che cosa volete? Neppure li ho biasimati, li ho solo scandalizzati con la lingua e i colpi. L’idea che ho di me è che non so nulla e sento sempre qualcosa di diverso in merito a un’idea del dolore e dell’amore che non può non uscirne.
Non ho mai amato l’atmosfera delle case di correzione e non accetto che me la si applichi.
Lo ripeto, a guidarmi non è l’orgoglio letterario dello scrittore che vuole piazzare e veder pubblicato il suo prodotto. Sono i fatti che racconto che voglio che nessuno ignori, i gridi di dolore che lancio e che voglio siano sentiti.
No io, Antonin Artaud, no e poi ancora no, io, Antonin Artaud, non voglio scrivere se non quando non ho più niente da pensare. Come che divori il proprio ventre, da dentro.
Sotto la grammatica si nasconde il pensiero che è un obbrobrio più difficile da battere, una vergine molto più renitente, molto più difficile da superare quando lo si prende per un atto innato.
Perché il pensiero è una matrona che non è sempre esistita.
E che le parole gonfie della mia vita si gonfino nel vivere dei bla-bla dello scritto.
Io scrivo per gli analfabeti.